MILANO - Un’eresia. Per decongestionare i pronto soccorsi italiani sempre più affollati e ormai al collasso, come testimonia anche una recente indagine conoscitiva della commissione Igiene e sanità del Senato , ci vogliono idee e soluzioni "eretiche"?
Il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, sostiene la necessità di cambiare la cultura ospedalocentricadel Sistema sanitario nazionale. Da tre anni, Fazio propugna un’idea: il 70-80% di codici verdi e bianchi che si riversano nelle sale d’attesa dei pronto soccorso, a suo dire «impropriamente», devono invece essere gestiti dai medici di medicina generale sul territorio. «Bisogna individuare una serie di strutture, vicine e lontane ai pronto soccorso, attraverso le quali attivare un’assistenza 24 ore su 24» diceva Fazio già nel 2008 lanciando il dibattito sul riordino delle Cure primarie. Nel piatto della nuova sanità territoriale, che richiede un ripensamento del ruolo dei medici di famiglia ma anche di guarda medica (la cosiddetta continuità assistenziale) il ministro ha messo 350 milioni di euro.
I medici di medicina generale e gli ospedalieri fanno però parte di due mondi che dialogano a fatica. I primi vedono nella riforma a favore del territorio una possibilità di riscatto professionale e anche un futuro. Gli altri sono scettici, temono duplicazioni inutili e non risolutive dei complessi problemi dei pronto soccorso. In mezzo c’è anche il Sistema 118, la struttura del soccorso sul territorio, preoccupata di mantenere la propria autonomia. Ma la missione di spostare il baricentro del sistema sanitario, è molto più ardua. Perché bisogna anche convincere le persone a rivolgersi a queste nuove strutture e non al pronto soccorso. «Culturalmente sarebbe la vera rivoluzione — ragiona Alberto Zoli, direttore dell’Azienda regionale emergenza e urgenza 118 della Lombardia —. Certo non si può pretendere che un cittadino si faccia il triage e decida da solo se il suo caso è da codice bianco o verde. Trovo anche molto critico che il 118, nato per fare trasporti d’urgenza, possa convogliare in queste nuove strutture del territorio. In base a che cosa? Un triage fatto da un operatore della centrale per telefono?».
Anna Maria Ferrari, past president della Società italiana di medicina d’emergenza urgenzainvita però a concentrarsi sui veri problemi del pronto soccorso: «Credo che nel tempo sia la guardia medica che gli ambulatori dei medici di famiglia debbano avere una maggiore disponibilità per i pazienti che necessitano di cure nell’ambito delle 24 ore — dice — . Ma non dobbiamo aspettarci dei risultati a breve termine». Secondo i medici dell’emergenza, oltre alle carenze nelle infrastrutture e nel personale, la questione più assillante che oggi devono affrontare i pronto soccorso è un altra: «La difficoltà a ricoverare malati seri, perché non si trovano letti disponibili — spiega Daniele Coen, responsabile della Medicina d’urgenza e pronto soccorso all’ospedale Niguarda di Milano —. In tutta Italia c’è stata una forte riduzione di posti letto per acuti. Però a questa riduzione si sarebbe dovuta affiancare una crescita dell’offerta di strutture intermedie, di letti per subacuti, di residenze sanitarie assistite sul territorio e invece non si è visto niente».
Dovendo agire da filtro sui ricoveri, chi lavora in pronto soccorso si trova così ad aumentare tempi di osservazione, numero e qualità degli esami. «In molti posti probabilmente c’è anche una componente di medicina difensiva» non nasconde Coen. Dunque, a detta dei medici, se si trovasse uno sbocco per i pazienti critici e soprattutto per quelli con malattie croniche che si riacutizzano. si riuscirebbe poi a velocizzare anche l’assistenza ai codici cosiddetti minori. In questa cornice troverebbe spazio anche una serie di soluzioni alternative che si stanno sperimentando in varie parti d’Italia. Come l’apertura di ambulatori gestititi da medici di medicina generale direttamente in pronto soccorso, in atto da 10 anni negli ospedali Molinette e San Giovanni Bosco di Torino o sperimentata tra il 2008 e il 2009 al Grassi di Ostia. «Il pronto soccorso direttamente dal medico di famiglia sarebbe però una catastrofe — sottolinea Francesco Enrichens, vice presidente della Società italiana sistemi 118 —, perché rischieremmo di mandare il cittadino in un posto storicamente non attrezzato per l’emergenza e l’urgenza». Per il suo collega di Ares 118 Lazio, Antonio De Santis, si potrebbe pensare però di mandare medici dell’area dell’emergenza come tutor dei colleghi di medicina generale per un certo tempo.
Regione Toscana prima, e Emilia Romagna poi, hanno scelto di affidare agli infermieri in pronto soccorso una piccola parte di codici minori, secondo la prassi anglosassone del See and Treat(vedi e tratta), provocando così anche un’esposto alla magistratura da parte dell’Ordine dei medici di Bologna. Gli infermieri, dopo aver seguito un corso specifico, sotto la supervisione di un medico possono eseguire una serie di medicazioni previste in appositi protocolli o anche mandare il paziente dallo specialista. I risultati sono soddisfacenti. «Stiamo finendo i sei mesi di sperimentazione — racconta Alessandro Rosselli, a capo del Dea Asl 10 di Firenze —. Mediamente, nei sei ospedali coinvolti è stato trattato dagli infermieri circa l’8% dei casi. I tempi di attesa e permanenza nell’ambulatorio infermieristico sono inferiori rispetto a quelli dei percorsi normali».
Carissimi utenti parliamone!!!!!!!!!!!!!!!
Il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, sostiene la necessità di cambiare la cultura ospedalocentricadel Sistema sanitario nazionale. Da tre anni, Fazio propugna un’idea: il 70-80% di codici verdi e bianchi che si riversano nelle sale d’attesa dei pronto soccorso, a suo dire «impropriamente», devono invece essere gestiti dai medici di medicina generale sul territorio. «Bisogna individuare una serie di strutture, vicine e lontane ai pronto soccorso, attraverso le quali attivare un’assistenza 24 ore su 24» diceva Fazio già nel 2008 lanciando il dibattito sul riordino delle Cure primarie. Nel piatto della nuova sanità territoriale, che richiede un ripensamento del ruolo dei medici di famiglia ma anche di guarda medica (la cosiddetta continuità assistenziale) il ministro ha messo 350 milioni di euro.
I medici di medicina generale e gli ospedalieri fanno però parte di due mondi che dialogano a fatica. I primi vedono nella riforma a favore del territorio una possibilità di riscatto professionale e anche un futuro. Gli altri sono scettici, temono duplicazioni inutili e non risolutive dei complessi problemi dei pronto soccorso. In mezzo c’è anche il Sistema 118, la struttura del soccorso sul territorio, preoccupata di mantenere la propria autonomia. Ma la missione di spostare il baricentro del sistema sanitario, è molto più ardua. Perché bisogna anche convincere le persone a rivolgersi a queste nuove strutture e non al pronto soccorso. «Culturalmente sarebbe la vera rivoluzione — ragiona Alberto Zoli, direttore dell’Azienda regionale emergenza e urgenza 118 della Lombardia —. Certo non si può pretendere che un cittadino si faccia il triage e decida da solo se il suo caso è da codice bianco o verde. Trovo anche molto critico che il 118, nato per fare trasporti d’urgenza, possa convogliare in queste nuove strutture del territorio. In base a che cosa? Un triage fatto da un operatore della centrale per telefono?».
Anna Maria Ferrari, past president della Società italiana di medicina d’emergenza urgenzainvita però a concentrarsi sui veri problemi del pronto soccorso: «Credo che nel tempo sia la guardia medica che gli ambulatori dei medici di famiglia debbano avere una maggiore disponibilità per i pazienti che necessitano di cure nell’ambito delle 24 ore — dice — . Ma non dobbiamo aspettarci dei risultati a breve termine». Secondo i medici dell’emergenza, oltre alle carenze nelle infrastrutture e nel personale, la questione più assillante che oggi devono affrontare i pronto soccorso è un altra: «La difficoltà a ricoverare malati seri, perché non si trovano letti disponibili — spiega Daniele Coen, responsabile della Medicina d’urgenza e pronto soccorso all’ospedale Niguarda di Milano —. In tutta Italia c’è stata una forte riduzione di posti letto per acuti. Però a questa riduzione si sarebbe dovuta affiancare una crescita dell’offerta di strutture intermedie, di letti per subacuti, di residenze sanitarie assistite sul territorio e invece non si è visto niente».
Dovendo agire da filtro sui ricoveri, chi lavora in pronto soccorso si trova così ad aumentare tempi di osservazione, numero e qualità degli esami. «In molti posti probabilmente c’è anche una componente di medicina difensiva» non nasconde Coen. Dunque, a detta dei medici, se si trovasse uno sbocco per i pazienti critici e soprattutto per quelli con malattie croniche che si riacutizzano. si riuscirebbe poi a velocizzare anche l’assistenza ai codici cosiddetti minori. In questa cornice troverebbe spazio anche una serie di soluzioni alternative che si stanno sperimentando in varie parti d’Italia. Come l’apertura di ambulatori gestititi da medici di medicina generale direttamente in pronto soccorso, in atto da 10 anni negli ospedali Molinette e San Giovanni Bosco di Torino o sperimentata tra il 2008 e il 2009 al Grassi di Ostia. «Il pronto soccorso direttamente dal medico di famiglia sarebbe però una catastrofe — sottolinea Francesco Enrichens, vice presidente della Società italiana sistemi 118 —, perché rischieremmo di mandare il cittadino in un posto storicamente non attrezzato per l’emergenza e l’urgenza». Per il suo collega di Ares 118 Lazio, Antonio De Santis, si potrebbe pensare però di mandare medici dell’area dell’emergenza come tutor dei colleghi di medicina generale per un certo tempo.
Regione Toscana prima, e Emilia Romagna poi, hanno scelto di affidare agli infermieri in pronto soccorso una piccola parte di codici minori, secondo la prassi anglosassone del See and Treat(vedi e tratta), provocando così anche un’esposto alla magistratura da parte dell’Ordine dei medici di Bologna. Gli infermieri, dopo aver seguito un corso specifico, sotto la supervisione di un medico possono eseguire una serie di medicazioni previste in appositi protocolli o anche mandare il paziente dallo specialista. I risultati sono soddisfacenti. «Stiamo finendo i sei mesi di sperimentazione — racconta Alessandro Rosselli, a capo del Dea Asl 10 di Firenze —. Mediamente, nei sei ospedali coinvolti è stato trattato dagli infermieri circa l’8% dei casi. I tempi di attesa e permanenza nell’ambulatorio infermieristico sono inferiori rispetto a quelli dei percorsi normali».
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